mercoledì 11 febbraio 2015

C. Facioni, "Parlare di futuri", 2015

                                                                                                                               Ricordatevi della vostra umanità, e dimenticate il resto
                                                                                                                                                                                            Joseph Rotblath
Perché si deve, soprattutto oggi, parlare di “futuri”
Carolina Facioni                                                                                                               

Anche i più distratti se ne sono forse accorti: da qualche tempo la parola “futuro” è molto utilizzata dai mass media. È il termine centrale di moltissime pubblicità, così come è onnipresente nei discorsi dei politici. Anche sul versante della protesta sociale (quanto di solitamente più lontano dall’establishment e dalle strategie del mercato) l’accento non è posto tanto sulla insoddisfazione per la condizione presente, quanto sul fatto che “si rubi il futuro”: evito di fare citazioni perché l’elenco sarebbe troppo lungo, ma invito i lettori a scrivere, su un qualsiasi motore di ricerca, “ci rubano il futuro” per rendersi conto di quanto il tema sia sentito e in quanti (singoli, gruppi, organizzazioni di vario colore e a vario titolo) si riconoscano in questa affermazione. Mi sono interrogata su questo nuovo interesse per un concetto a lungo messo da parte (soprattutto nel nostro Paese): la mia impressione è che la crisi economica di questi ultimi anni abbia reso il presente qualcosa di legato a sensazioni prevalentemente negative: lo si rimuove, dunque, guardando altrove, oltre (nel tempo). Da un canto, gli esperti in comunicazione hanno ormai da un po’ captato la sensazione diffusa e quindi il marketing (anche politico) lega “i prodotti” (quali siano) ad una immagine che dal difficile e negativo presente si distacchi: il nuovo, il bello, il desiderabile, è nel futuro, è il futuro. Sul versante della protesta sociale, il presente è vissuto in modo talmente negativo che lo si dà già per perduto: si sposta dunque l’attenzione sui rischi che corre lo stesso futuro.

Della società del rischio (Beck, 2007) forse non si tratta dunque più di considerare la sola dimensione spaziale (la dimensione globale del rischio), ma anche quella temporale. Il margine del rischio si sposta al tempo a venire: il timore è quello di perdere qualcosa che ancora non abbiamo e non sappiamo più se avremo. L’uomo della modernità liquida (Bauman, 2000) vive i suoi timori in una dimensione temporale che non gli è possibile di fatto sperimentare, ma che già “vive” nel tempo presente in termini di desiderio e di speranza - ma anche di angoscia per la possibile perdita. È proprio in questa oscillazione tra angoscia e desiderio del futuro che, a mio parere, potremmo collocare una nuova, forse finora mai sperimentata in tale intensità, dimensione esistenziale: mai il presente era stato così svuotato della sua pregnanza; mai il futuro aveva finora sostituito il ruolo del presente nella vita interiore, intellettuale, degli individui. Una dimensione esistenziale che va letta anche considerando un aspetto di solito ignorato: ovvero che il futuro, inteso come spazio di realizzazione di un’idea di progresso, compare relativamente tardi nel pensiero occidentale[1] (Bury, 1932). Nell’antichità classica, l’idea di operare per il domani non avrebbe avuto senso, visto che il presente stesso era vissuto quale risultato della progressiva degenerazione rispetto alla mitica “età dell’oro”. Il Rinascimento – con l’eccezione di Niccolò Machiavelli, per il quale operare nel presente è necessario per costruire un’idea di stato futuro – fa proprie le concezioni classiche cui si ispira.

La situazione si ribalta con l’Illuminismo, per cui è il presente ad essere, nel suo aver sorpassato il passato (si pensi alla storica disputa tra gli antichi e i moderni in Francia)[2] qualcosa di non più migliorabile, espressione di un mondo ormai irrimediabilmente “vecchio”. Saranno invece il Romanticismo – e la Rivoluzione Industriale – a consegnare all’oggi la concezione di futuro in quanto obiettivo di un’idea di progresso, di un progetto che nasce nel presente. In sintesi: con poche eccezioni, pensare al futuro, se si esclude la divinazione, è cosa relativamente recente. Tant’è che a tutt’oggi l’immagine della “palla di vetro”, nei discorsi sulla previsione, è ancora in qualche modo, scherzoso o meno, comunque evocata.

Il salto epistemico vero e proprio, il cui si creano le premesse teoriche per parlare di studi di previsione in senso scientifico, avviene tuttavia dopo la Seconda Guerra Mondiale. È qui che si inizia a formulare la fondamentale concezione di un futuro non unico, ma plurimo (Bell, 2003 e 2004)[3].  I Futures Studies nascono dalle paure della Guerra Fredda, dal ricordo degli orrori appena passati, dalla volontà di non volerli più ripetere. Nascono dalla presa di coscienza delle potenzialità negative – a livello globale – degli stessi progressi scientifici: del 1955 è lo storico Manifesto Russell-Einstein. In questo clima si iniziano ad elaborare ipotesi teorico-pratiche sul modo di influire positivamente sul futuro evitando al tempo stesso di colonizzarlo, senza creare premesse deterministiche per le generazioni a venire (come avveniva e avviene, ad esempio, quando si parla di pianificazione)[4]. Se negli Stati Uniti l’accento si pone più sullo sviluppo di tecniche previsive, in Europa, in particolare in Francia, se ne pongono le basi filosofiche (de Jouvenel, 1964; Berger, 1967). Il contributo italiano ai Futures Studies è stato peraltro importantissimo, se si pensa a figure come Aurelio Peccei, cui si deve il rapporto del MIT sui limiti alla crescita (Meadows, Meadows, Randers, Behrens, 1972), o come la sociologa Eleonora Barbieri Masini.

Il senso dei Futures Studies è quello di “promuovere l’uomo”, ipotizzando i possibili sviluppi degli eventi e considerando tempi anche molto lunghi, più lunghi di quelli solitamente considerati nelle scienze propriamente dette. In effetti, i Futures Studies non possono definirsi una scienza, ma una disciplina a carattere scientifico: questo in quanto le loro asserzioni sono verificabili - ed in modo problematico, non potendosi stabilire una relazione certa di causa-effetto – soltanto ex post. Questo carattere parascientifico non esclude, va sottolineato, la necessità di correttezza scientifica e metodologica in tutti i singoli passaggi in cui i Futures Studies (che per diversi aspetti sono assimilabili alla action research) si attuano. Anzi, questa correttezza metodologica è imprescindibile da essi; non avrebbero altrimenti la minima credibilità nel contesto scientifico in cui comunque si trovano ad operare, dal momento che operano mettendo insieme praticamente tutte le scienze “istituzionali”, in un’ottica transdisciplinare e multidisciplinare (Barbieri Masini, 2000). Un contributo teorico di solito non analizzato nell’ottica dei Futures Studies è quello del filosofo Nicola Abbagnano, il quale, teorizzando l’esistenzialismo positivo (1948)  considera possibile lo “sblocco” dell’uomo dalla condizione di inazione e di angoscia  cui il pensiero esistenzialista sembrava averlo condannato. Un contributo che oggi andrebbe riscoperto, proprio alla luce del particolare rapporto tra uomo e futuro che abbiamo all’inizio considerato. Così come in ottica Futures Studies andrebbe riletta (a mio parere) l’opera di Annah Arendt (1958).  

Concludendo, penso che le contingenze storiche come quella che stiamo vivendo siano fondamentali per cambiare il nostro Paese e dargli una autentica “educazione al futuro”, ma ne vadano colte le potenzialità. Ora, se da un canto trovo importante che in Italia si sia tornati a parlare di futuro, l’impressione è che lo si faccia in un modo spesso superficiale. Il termine rischia così di trasformarsi in uno dei tanti slogan abusati dai mass media; un po’ come è successo per “valori”, o per “bellezza”, concetti di cui sarebbe in teoria molto difficile parlare, se lo si volesse fare sul serio. Questa contingente riscoperta, con tutte le implicazioni sociali che comporta, può avere un senso se non si configurerà (nel contesto socio culturale, nell’immaginario collettivo) in termini di doxa, ovvero (riprendendo Platone) come “opinione” generica, basata sul sentito dire; la falsa conoscenza contrapposta all’epistheme - la conoscenza fondata, scientifica, argomentata in modo solido. In questo senso, il discorso sul futuro rischia di fermarsi ad un livello pop, riprendendo Slaughter (2004; citato in Arnaldi e Poli, 2012), senza che si vada in profondità. Senza, quindi, che si operino quei cambiamenti nel profondo che, soli, potrebbero dare le risposte di crescita umana di cui molti sentono il bisogno. Di qui l’importanza di evidenziare quanto il concetto di futuro -  meglio, di futuri - abbia un peso reale nella vita degli individui e nella società – come anche (sia pure in modo complesso) nel contesto scientifico propriamente detto. Parlare di Futures Studies equivale ad entrare in un ambito strutturato: in senso teorico, metodologico e tecnico; di essi occorre sottolineare, oggi più di ieri, la centralità nel dibattito scientifico contemporaneo. Il futuro, nel (del) nostro Paese e non solo, non può certo restare imprigionato nei talk show – o negli spot pubblicitari.


Riferimenti bibliografici

Abbagnano N., L’esistenzialismo positivo, Torino, Taylor, 1948
Arendt H., The Human Condition, The University of Chicago, U.S.A., 1958; tr. it.,  Vita activa - La condizione umana, Milano, Bompiani, 2009
Arnaldi S., Poli R. (a cura di), La previsione sociale – Introduzione allo studio dei futuri, Roma, Carocci, 2012
Barbieri Masini E., Penser le Futur – L’essentiel de la prospective et de ses méthodes,  Paris, Dunod, 2000
Bauman Z., Liquid Modernity, Cambridge, Polity Press, 2000; tr. it. Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002
Beck U., Weltrisikogesellshaft. Auf der Suche nach der verlorenen Sicherheit, Frankfurt am Main, 2007; tr. it. Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Roma-Bari, Laterza 2008
Bell W., Foundations of Futures Studies. History, Purposes, and Knowledge, New Brunswick (USA) and London (UK), Transaction Publishers, 2003 (Fifth printing, 2009)
Bell W., Foundations of Futures Studies. Values, Objectivity, and the Good Society, New Brunswick (USA) and London (UK), Transaction Publishers, 2004 (Third printing, 2008)
Berger G., Étapes de la prospective, Parigi, Presses Universitaires de France, 1967 ; sito  http://www.laprospective.fr/
Bury J. B., The Idea of Progress – An Inquiry on its Origin and Growth, Macmillan Company, 1932; tr. it. Storia dell’idea di progresso, Milano, Feltrinelli, 1964
Capra F., The Tao of Physics, Berkeley, Shambhala Publications, 1975; ed. it., Il Tao della fisica, Milano, Adelphi, 1982
De Jouvenel B., L’art de la conjecture, Futuribles, Monaco, Éditions du Rocher, 1964 ; tr. it., L’arte della congettura, Firenze, Vallecchi, 1967
Meadows D. H., Meadows D. L., Randers J., Behrens W. W., The Limits to Growth: A Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind, Ginevra, Club of Rome, 1972; tr. it., I limiti dello sviluppo – rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, Milano, Mondadori, 1972
Platone, La Repubblica, a cura di F. Adorno, in: Tutti i dialoghi, Torino, Utet, 1988
Slaughter R.A., Futures Beyond Dystopia: Creating Social Foresights, London-New York, Routledge Falmer, 2004



[1] Data la sintesi che lo spazio richiede, non entro nella complessità dell’approccio orientale al concetto di tempo, che per molti aspetti si è rivelato anticipatore delle scoperte scientifiche del Novecento. A riguardo, rimando a Capra (1975). Per lo stesso motivo, mi sono limitata a un brevissimo cenno al futuro nel pensiero occidentale.
[2] Tra l’altro, generata da un commento ad un’opera dell’italiano Tassoni.
[3] Eleonora Barbieri Masini sottolinea tuttavia come un’idea di futuro plurimo, legata al fondamentale tema del libero arbitrio, sia già presente in un’opera del teologo spagnolo Luis de Molina del 1563, intitolata De Liberii Arbitrii cum Gratiae Donis, Divina Praescientia, Providentia, Praedestinatione et Reprobatione Concordia. Un’opera controversa che a suo tempo scatenò una querelle teologica tra Gesuiti e Domenicani: tra di essi, in particolare, tra de Molina e il teologo Domenico Banez.
[4] In questo senso, la corrente di pensiero transumanista va in una direzione totalmente opposta a quella dei Futures Studies. Ponendosi infatti l’obiettivo di operare sull’uomo in quanto specie, il transumanesimo è totalmente (e pericolosamente, a mio avviso) determinista. Mentre i Futures Studies hanno come obiettivo il promuovere l’uomo nel suo rapporto con la natura e tra le diverse culture, il transumanesimo teorizza, di fatto, la costruzione di una nuova specie ed il superamento di alcuni processi naturali (ad esempio, l’invecchiamento e la morte). 

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