domenica 8 febbraio 2015

Carolina Facioni --- Uno sguardo ai futuri -- 2012

UNO SGUARDO AI FUTURI: I MOLTI PERCHÉ DI UNA DISCIPLINA
di Carolina Facioni[1]

“Presumo che vi aspettiate che io prenda sul serio l’elenco dei libri che vengono citati come miei, benché non siano stati ancora scritti. Forse sarei rimasto stupito dalla vostra capacità di prevedere il futuro se non vi foste dimostrati così indecisi riguardo l’anno della mia morte. Addirittura nove possibilità! Gradirei essere informato quando vi sarete decisi per una di queste. Una tempestiva cognizione di essa mi faciliterebbe notevolmente il resto della vita, per quanto lunga sia”
......
”Stimatissimo Signore,
non ci è, purtroppo, possibile informarla di quando Lei morirà. Il futuro non si può semplicemente prevedere. Al momento tutte le nove possibilità sono aperte. Il caso deciderà quale si avvererà. La Sua bibliografia contiene tutte le opere di questi futuri possibili. Su nessuno dei rami delle vite che Le stanno davanti, per dirlo in maniera pittoresca, Lei scriverà e le pubblicherà tutt’e diciotto. La Sua futura opera includerà al massimo undici e al minimo sei libri. Lei ha potuto vederli soltanto sul nostro sito. Con questo speriamo di aver giustificato il nostro slogan. Con sincero rispetto,
                                     la Biblioteca Virtuale”
(Zoran Živković, 2002, Sei biblioteche – storie impossibili, pagg. 39-40 tr. it. 2011)


Ho scelto di aprire l’articolo con un breve stralcio tratto da “La biblioteca virtuale” di  Živković perché mi è sembrato, leggendolo, di trovarmi di fronte ad un esempio di come l’intuizione artistica riesca a suggerire molte delle idee-chiave che caratterizzano una disciplina, molto più di quanto non riesca a volte un argomentato discorso teorico. L’idea suggerita è, in questo caso, quella dei futuri possibili. Il protagonista del racconto è uno scrittore, che in realtà ha scritto soltanto tre libri. Si trova a scoprire, in una misteriosa biblioteca virtuale (il cui slogan è “noi abbiamo tutto!”) l’elenco in cui figurano anche gli altri suoi potenziali diciotto titoli, nonché nove diverse sue possibili biografie: la più breve delle sue vite terminerà di lì a dieci anni, la più lunga durerà ancora per cinquanta. Rimarrà con molti dubbi e – forse – una certezza: quella che non riuscirà, comunque, a scrivere tutti i suoi possibili titoli. 

Certamente, non può sfuggire al lettore un elemento importante, che fa la differenza rispetto al discorso che i Futures Studies portano avanti: l’idea di opprimente determinismo che è alla base degli scenari futuri come accennati dallo scrittore serbo: nonostante egli tiri in ballo il “caso”, ogni singolo destino è tracciato comunque inderogabilmente. In questo senso, l’analogia con l’immagine offerta dalla fiction artistica entra in crisi, in quanto i Futures Studies sono, vogliono essere disciplina quanto più possibile aperta, pluralistica, dichiaratamente relativistica. I futuri vengono declinati al plurale proprio per eliminare il fraintendimento di una ipotetica colonizzazione a senso unico da parte del presente. Certamente, in chi ragiona sul come costruire, pensare futuri possibili, cercando magari di avvicinarsi all’obiettivo –  per De Jouvenel utopico (De Jouvenel, 1962) – di costruirne di desiderabili,  vi è la coscienza che vanno comunque fatte delle scelte. L’apertura, la pluralità dei futuri non viene realizzata – semmai venga realizzata –  in modo aproblematico; l’idea di avalutatività alla base del lavoro scientifico, così come formulata da Weber, è comunque, inevitabilmente, superata.

Forse è però il caso, per chiarire meglio questo punto, fare un piccolo passo indietro, per meglio comprendere cosa si intenda per Futures Studies. Vanno senz’altro chiariti alcuni snodi epistemologici: ad esempio, il fatto che perché non li si possa definire una scienza, data l’impossibilità di una dimostrazione delle tesi sostenute, se non ex post. Una differenza che ha fatto sì che la svolta in senso probabilistico di pressoché tutte le scienze nel ‘900 non ne abbia di fatto messo in discussione lo statuto. I Futures Studies sono dunque una disciplina a carattere scientifico: aspetto, questo, fondamentale, dal momento che rende ancora più forte l’istanza di rigore su tutte le fasi di un lavoro che, pur non definendosi scienza, coinvolge insieme tutte le scienze e le scienze sociali in particolare. Qualche parola va peraltro spesa per comprendere come mai tale disciplina non sia conosciuta nel nostro Paese come meriterebbe, avendo tra i suoi più illustri cultori molti italiani – perlopiù studiosi notissimi all’estero –  e non propriamente a livello “di nicchia”.

Parlare in modo scientifico di concetti significa innanzi tutto contestualizzarli nel loro svolgersi storico (Koselleck, 2006): il “tempo”, il “progresso”, il “futuro” non hanno avuto sempre lo stesso peso, la stessa rappresentazione che hanno oggi, nel pur sfaccettato contesto socioculturale occidentale – volendo considerare solo quest’ultimo. Il “futuro”, nella cultura classica, era ad esempio qualcosa di cui era forse persino meglio non curarsi (si pensi al “Carpe diem” dell’epicureo Orazio): il massimo splendore per l’umanità non era percepito come un obiettivo da raggiungere al di là dell’oggi, ma in quanto già perduto per sempre, nel mitico passato dell’Età dell’Oro. I primi elementi che fanno pensare ad una concettualizzazione del tempo simile a quella che caratterizza la modernità (passato=>presente=>futuro) vanno probabilmente ricercati nella Torah, in cui sono tuttavia presenti anche passaggi che fanno pensare ad una concezione del tempo di tipo ciclico, come quella che caratterizza molte culture orientali (Gombrich, 1992). In età classica il futuro non esiste che in quanto superstizioso oggetto di divinazione – e tale impostazione si mantiene anche nel Rinascimento, con una interessante eccezione in Machiavelli, che nel “Principe” ribadisce spesso il concetto che bisogna apprendere dal passato per costruire un futuro migliore. Nel periodo dell’Illuminismo, a partire dalla nota querelle tra gli antichi e i moderni, l’attenzione si sposta invece fortemente nel presente, che diviene il luogo della perfezione di un’umanità percepita però come ormai vecchia. Lo stesso filone del pensiero utopico (tutt’altro che trascurato nei Futures Studies), sottende l’idea che, una volta realizzata la società ideale, l’umanità non abbia più bisogno  di evolversi, continuando a vivere in una sorta di non-tempo sospeso.

Sarà dunque solo lo slancio del Romanticismo a dare al futuro una vera dignità intellettuale, uno spazio che finisce per coincidere, sotto molti aspetti, con l’idea stessa di progresso (Bury, 1932). Un vera teorizzazione del futuro come oggetto di studi scientifici non poteva, dunque, che trovare il suo luogo ideale nel ‘900, secolo in cui, più di ogni altro, le conquiste scientifiche (nel bene e nel male) contribuiscono a costruire la storia. Se, stando all’ormai storico lavoro di Wendell Bell e James Anthony Mau, The Sociology of the Future (Bell, Mau, 1973),  il primo testo sociologico dedicato al futuro è The Future di A. M. Low, pubblicato nel 1925 (Rizza, 2003), è però soprattutto alla fine della II Guerra Mondiale, nel momento in cui l’umanità prende atto di orrori finora mai sperimentati a livello globale, di fronte alla certezza delle proprie possibilità distruttive, che gli studi di previsione acquisiscono una centralità mai sperimentata prima. Negli anni della Guerra Fredda nasce, negli Stati Uniti, la Rand Corporation, il tutt’oggi attivo centro di studi strategici e di previsione fondato, tra gli altri, da Hermann Kahn, che per primo elaborò, con risultati a tutt’oggi controversi, la tecnica degli scenari e nel quali si elaborano i primi studi basati su Delphi (che vengono tenuti segreti fino agli inizi degli anni ’60).

Se negli Stati Uniti la riflessione si rivolge essenzialmente allo sviluppo di tecniche previsive, mentre nell’allora Unione Sovietica sono gli elementi legati alla pianificazione (monodirezionale e deterministica) sul territorio ad avere la prevalenza, in Europa si cerca una strada diversa. In Francia, la conjecture di Bertrand de Jouvenel e la prospective di Gaston Berger, con le loro differenti sfumature di senso, rappresentano un approccio di tipo filosofico che però non vuol restare nella pura speculazione teorica; gli studi di previsione europei hanno fin dall’inizio una sorta di “vocazione all’intervento” nel sociale, che chiama in causa tutte le discipline, in un approccio transdisciplinare la cui importanza sarà sottolineata da una grande studiosa italiana, Eleonora Barbieri Masini. Con i Futuribles (termine che nasce dalla contrazione dei termini “futures” e “possibles”) francesi entra in contatto l’imprenditore Pietro Ferraro, che, sulla scia del gruppo (e della sua omonima rivista) fonda la rivista “Futuribili” in Italia, nel 1969. La pubblicazione, un vero e proprio tesoro intellettuale misconosciuto nel nostro Paese, dopo un’interruzione ventennale alla morte di Ferraro riapre le pubblicazioni nel 1994, grazie all’iniziativa di Alberto Gasparini, che a Trieste dirige l’ISIG, uno dei pochi centri italiani dedicati agli studi strategici e di previsione.

Parlare di Futures Studies “italiani” forse è improprio: questi studi si caratterizzano fin dall’inizio per una prospettiva di ordine mondiale, per una dimensione internazionale degli studiosi. Emblematica, in tal senso, la figura di Aurelio Peccei, manager Fiat padre di una miriade di iniziative a livello nazionale ed internazionale – tra di esse  Adela, Italconsult, Alitalia, IIASA – la cui creatura forse più nota e controversa è il Club di Roma, che viene fondato da Peccei insieme ad Alexander King nel 1968 ed è una vera e propria rete internazionale di studiosi e personaggi di spicco in varie discipline. Il Club nasce allo scopo di mettere in evidenza quelli che Peccei ritiene essere i rischi potenziali per il pianeta. I problemi vengono analizzati in ottica sistemica, almeno per quanto riguarda i primi lavori prodotti: in primis, si pone l’accento sulla sovrappopolazione ed il conseguente sfruttamento delle risorse. Il primo rapporto del Club di Roma, The Limits to Growth (Meadows, Meadows, Randers Behrens, 1972), elaborato dal gruppo di Jay Forrester al MIT, provoca un vero e proprio terremoto nella comunità scientifica, nonché un dibattito che Giorgio Nebbia è tra i primi a portare (dopo Mortara)  nel contesto accademico, parlando, ad esempio, del problema dell’esaurimento dell’acqua potabile. Un dibattito che a tutt’oggi si può definire ininterrotto: basti considerare il fatto che il numero 500 dell’edizione italiana de “Le scienze” esce con il titolo Terra 3.0. Soluzioni per un futuro sostenibile (2010).

Un’altra figura che non va dimenticata nel contesto italiano è quella del matematico Bruno de Finetti, che negli anni ’70 delle tesi di Peccei diviene un acceso sostenitore, dedicando al rapporto tra scienza ed impegno alcuni importanti convegni CIME (Centro Internazionale Matematico Estivo); tuttavia, anche nel contributo del de Finetti matematico puro, dei concetti da lui elaborati fin dagli anni ’30 del secolo scorso è possibile, a mio avviso, riscontrare elementi che riportano a temi legati ai Futures Studies. Perché non considerare, infatti, il consenso della comunità su una soluzione comune - basilare nel lavoro di chi progetta futuri - come una forma collettiva di scambiabilità? Perché non considerare il risultato finale di un Delphi se non come una forma particolare di scambiabilità? Forse, in questo senso, la figura di de Finetti ed il suo contributo meritano un ulteriore approfondimento.

La figura chiave degli studi di previsione in Italia è tuttavia Eleonora Barbieri Masini, a tutt’oggi attiva in molte organizzazioni internazionali e Professor Emeritus presso la Pontificia Università Gregoriana  (non casualmente, un’Accademia extraterritoriale). È lei a strutturare e tenere in piedi la World Future Studies Federation; è lei a far crescere l’Irades (Istituto di Ricerche Applicate, Documentazione E Studi), attivando al suo interno il Centro di studi di previsione da lei voluto e diretto; come pure è lei ad organizzare la Terza Conferenza Mondiale degli Studi sul Futuro, prestigiosa iniziativa organizzata a Roma nel 1973 con il patrocinio dell’Ente di ricerca. Sarà proprio dopo questa conferenza, che vede nei difficili anni ’70 la partecipazione di studiosi provenienti da tutto il mondo, Paesi dell’Est compresi, che l’Irades sarà sempre più osteggiato, fino alla definitiva chiusura, a tutt’oggi avvenuta in circostanze non chiare (così come la sparizione dei testi della sua ricchissima biblioteca). Dopo questo trauma, la Barbieri Masini riprende man mano i suoi contatti internazionali e – grazie al supporto di istituzioni quali la Pontificia Università Gregoriana, o l’Università delle Nazioni Unite, può continuare a dare il suo contributo di scienziata sociale, coordinando progetti di ricerca (ma forse è il caso di parlarne in termini di ricerca-intervento) di peso come, ad esempio Household, Gender, and Age, che la impegna in molte parti del mondo per circa 10 anni (dal 1981 al ‘91).

Ad Eleonora Barbieri Masini va pure riconosciuto il merito di aver dato una veste teorica compiuta alla disciplina, coordinando le molte interpretazioni che se ne davano al suo interno.

Chiudendo questa breve digressione sui Futures Studies e la loro importanza nel contesto scientifico, mi sembra giusto sottolineare come una disciplina che non ha la pretesa di definirsi scienza, nel suo essere al tempo stesso rigorosa ed attenta ai bisogni emergenti nelle molte culture del mondo, non può che porsi come elemento di necessaria riflessione per tutto il contesto scientifico – e per le scienze sociali in particolare. Mi piacerebbe inoltre che fossero più conosciuti – e non in termini di contributo storico, ma in quanto viva realtà di ricerca – soprattutto in un Paese come il nostro, che invece, per obbedire a non sempre trasparenti regole politiche, non ha spesso ascoltato nel modo giusto i suggerimenti dei suoi studiosi. Resta famosa la risata di un Ministro, che aveva chiesto ad Eleonora Barbieri Masini quale sarebbe stato il problema principale che l’Italia si sarebbe trovata ad affrontare di lì ai prossimi venti anni; “L’invecchiamento della popolazione e l’età pensionabile” era stata la sua risposta. Forse qualcosa poteva essere fatto – in modo meno traumatico di quanto avvenga oggi  – molti anni fa.

Riferimenti bibliografici 

Barbieri Masini E., Why Futures Studies? London, Grey Seal, 1993
Barbieri Masini E., Stratigos S. (a cura di), Women, Households, and Change, Tokyo, New York, Paris, United Nations University Press, 1991; tr. it., Donne e famiglia nei processi di sviluppo, Torino, ISEDI, 1994
Barbieri Masini E., Nebbia  G. (a cura di), I limiti dello sviluppo 1972- 2022. Che cosa resta dopo 25 anni, che cosa resterà fra 25 anni, “Futuribili” n. 3, Milano, Franco Angeli, 1998
Bell W., Mau J. A., The Sociology of the Future, New York, Russell Sage Foundation, 1973
Berger G., Étapes de la prospective, Parigi, Presses Universitaires de France, 1967 ; sito  http://www.laprospective.fr/
Bury J. B., The Idea of Progress – An Inquiry on its Origin and Growth, Macmillan Company, 1932; tr. it. Storia dell’idea di progresso, Milano, Feltrinelli, 1964
de Finetti B., Probabilismo. Saggio critico sulla teoria delle probabilità e il valore della scienza, Napoli, Perrella, 1931; in De Finetti (a cura di M. Mondadori), La logica dell’incerto, Milano, Il Saggiatore, 1989
De Jouvenel B., L’art de la conjecture, Futuribles, Monaco, Éditions du Rocher, 1964 ; tr. it., L’arte della congettura, Firenze, Vallecchi, 1967
De Jouvenel B., Riflessioni sulle esperienze dei “Futuribles” francesi, in “Futuribili” n. 1, Roma, Tumminelli Editore, novembre 1967
Gombrich R., La predizione nel Buddismo: quanto è aperto il futuro? in (a cura di) Howe L. e Wain A., 1993; tr. it. pagg. 151-150, Bari, Edizioni Dedalo, 1994
Koselleck R., Begriffgeschichten, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 2006; tr. it., Il vocabolario della modernità, Bologna, Il Mulino, 2009
Rizza S., Il presente del futuro. Sociologia e previsione sociale, Milano, Franco Angeli, 2003
Živković Z., 2002; tr. it., Sei biblioteche – storie impossibili, Milano, TEA, 2011







[1] Sociologa, ha recentemente conseguito il Dottorato di Ricerca con una tesi intitolata “L’esperienza e il contributo italiano ai Futures Studies”.  Il breve articolo qui presentato vuol essere una ulteriore riflessione  a partire proprio da questo lavoro. 

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