Carolina Facioni --- Uno sguardo ai futuri -- 2012
UNO SGUARDO AI FUTURI: I MOLTI
PERCHÉ DI UNA DISCIPLINA
di Carolina Facioni[1]
“Presumo che vi aspettiate
che io prenda sul serio l’elenco dei libri che vengono citati come miei, benché
non siano stati ancora scritti. Forse sarei rimasto stupito dalla vostra
capacità di prevedere il futuro se non vi foste dimostrati così indecisi
riguardo l’anno della mia morte. Addirittura nove possibilità! Gradirei essere
informato quando vi sarete decisi per una di queste. Una tempestiva cognizione
di essa mi faciliterebbe notevolmente il resto della vita, per quanto lunga
sia”
......
”Stimatissimo Signore,
non ci è, purtroppo,
possibile informarla di quando Lei morirà. Il futuro non si può semplicemente
prevedere. Al momento tutte le nove possibilità sono aperte. Il caso deciderà
quale si avvererà. La Sua bibliografia contiene tutte le opere di questi futuri
possibili. Su nessuno dei rami delle vite che Le stanno davanti, per dirlo in
maniera pittoresca, Lei scriverà e le pubblicherà tutt’e diciotto. La Sua
futura opera includerà al massimo undici e al minimo sei libri. Lei ha potuto
vederli soltanto sul nostro sito. Con questo speriamo di aver giustificato il
nostro slogan. Con sincero rispetto,
la
Biblioteca Virtuale”
(Zoran
Živković, 2002, Sei biblioteche – storie impossibili, pagg. 39-40 tr. it. 2011)
Ho scelto di aprire
l’articolo con un breve stralcio tratto da “La biblioteca virtuale” di Živković perché mi è sembrato, leggendolo, di
trovarmi di fronte ad un esempio di come l’intuizione artistica riesca a
suggerire molte delle idee-chiave che caratterizzano una disciplina, molto più
di quanto non riesca a volte un argomentato discorso teorico. L’idea suggerita
è, in questo caso, quella dei futuri
possibili. Il protagonista del racconto è uno scrittore, che in realtà ha
scritto soltanto tre libri. Si trova a scoprire, in una misteriosa biblioteca
virtuale (il cui slogan è “noi abbiamo
tutto!”) l’elenco in cui figurano anche gli altri suoi potenziali diciotto
titoli, nonché nove diverse sue possibili biografie: la più breve delle sue
vite terminerà di lì a dieci anni, la più lunga durerà ancora per cinquanta.
Rimarrà con molti dubbi e – forse – una certezza: quella che non riuscirà,
comunque, a scrivere tutti i suoi
possibili titoli.
Certamente, non può
sfuggire al lettore un elemento importante, che fa la differenza rispetto al
discorso che i Futures Studies
portano avanti: l’idea di opprimente determinismo
che è alla base degli scenari futuri come accennati dallo scrittore serbo:
nonostante egli tiri in ballo il “caso”, ogni singolo destino è tracciato
comunque inderogabilmente. In questo senso, l’analogia con l’immagine offerta
dalla fiction artistica entra in
crisi, in quanto i Futures Studies
sono, vogliono essere disciplina quanto più possibile aperta, pluralistica,
dichiaratamente relativistica. I futuri vengono declinati al plurale proprio
per eliminare il fraintendimento di una ipotetica colonizzazione a senso unico
da parte del presente. Certamente, in chi ragiona sul come costruire, pensare
futuri possibili, cercando magari di
avvicinarsi all’obiettivo – per De
Jouvenel utopico (De Jouvenel, 1962) – di costruirne di desiderabili, vi è la
coscienza che vanno comunque fatte
delle scelte. L’apertura, la pluralità dei futuri non viene realizzata – semmai
venga realizzata – in modo
aproblematico; l’idea di avalutatività
alla base del lavoro scientifico, così come formulata da Weber, è comunque,
inevitabilmente, superata.
Forse è però il
caso, per chiarire meglio questo punto, fare un piccolo passo indietro, per
meglio comprendere cosa si intenda per Futures
Studies. Vanno senz’altro chiariti alcuni snodi epistemologici: ad esempio,
il fatto che perché non li si possa definire una scienza, data l’impossibilità
di una dimostrazione delle tesi sostenute, se non ex post. Una differenza che ha fatto sì che la svolta in senso
probabilistico di pressoché tutte le scienze nel ‘900 non ne abbia di fatto
messo in discussione lo statuto. I Futures
Studies sono dunque una disciplina a
carattere scientifico: aspetto, questo, fondamentale, dal momento che rende
ancora più forte l’istanza di rigore su tutte le fasi di un lavoro che, pur non
definendosi scienza, coinvolge insieme tutte le scienze e le scienze sociali in
particolare. Qualche parola va peraltro spesa per comprendere come mai tale
disciplina non sia conosciuta nel nostro Paese come meriterebbe, avendo tra i
suoi più illustri cultori molti italiani – perlopiù studiosi notissimi
all’estero – e non propriamente a
livello “di nicchia”.
Parlare in modo
scientifico di concetti significa innanzi tutto contestualizzarli nel loro
svolgersi storico (Koselleck, 2006): il “tempo”, il “progresso”, il “futuro”
non hanno avuto sempre lo stesso peso, la stessa rappresentazione che hanno
oggi, nel pur sfaccettato contesto socioculturale occidentale – volendo
considerare solo quest’ultimo. Il “futuro”, nella cultura classica, era ad
esempio qualcosa di cui era forse persino meglio non curarsi (si pensi al
“Carpe diem” dell’epicureo Orazio): il massimo splendore per l’umanità non era
percepito come un obiettivo da raggiungere al di là dell’oggi, ma in quanto già
perduto per sempre, nel mitico passato dell’Età dell’Oro. I primi elementi che
fanno pensare ad una concettualizzazione del tempo simile a quella che
caratterizza la modernità (passato=>presente=>futuro) vanno probabilmente
ricercati nella Torah, in cui sono tuttavia presenti anche passaggi che fanno
pensare ad una concezione del tempo di tipo ciclico, come quella che
caratterizza molte culture orientali (Gombrich, 1992). In età classica il
futuro non esiste che in quanto superstizioso oggetto di divinazione – e tale
impostazione si mantiene anche nel Rinascimento, con una interessante eccezione
in Machiavelli, che nel “Principe” ribadisce spesso il concetto che bisogna
apprendere dal passato per costruire un futuro migliore. Nel periodo
dell’Illuminismo, a partire dalla nota querelle
tra gli antichi e i moderni, l’attenzione si sposta invece fortemente nel
presente, che diviene il luogo della perfezione di un’umanità percepita però
come ormai vecchia. Lo stesso filone del pensiero utopico (tutt’altro che
trascurato nei Futures Studies),
sottende l’idea che, una volta realizzata la società ideale, l’umanità non
abbia più bisogno di evolversi, continuando
a vivere in una sorta di non-tempo sospeso.
Sarà dunque solo lo
slancio del Romanticismo a dare al futuro una vera dignità intellettuale, uno
spazio che finisce per coincidere, sotto molti aspetti, con l’idea stessa di progresso (Bury, 1932). Un vera
teorizzazione del futuro come oggetto di studi scientifici non poteva, dunque,
che trovare il suo luogo ideale nel ‘900, secolo in cui, più di ogni altro, le
conquiste scientifiche (nel bene e nel male) contribuiscono a costruire la
storia. Se, stando all’ormai
storico lavoro di Wendell Bell e James Anthony Mau, The Sociology of the Future (Bell, Mau, 1973), il primo testo sociologico dedicato al futuro
è The Future di A. M. Low, pubblicato
nel 1925 (Rizza, 2003), è però soprattutto alla fine della II Guerra Mondiale,
nel momento in cui l’umanità prende atto di orrori finora mai sperimentati a
livello globale, di fronte alla certezza delle proprie possibilità distruttive,
che gli studi di previsione acquisiscono una centralità mai sperimentata prima.
Negli anni della Guerra Fredda nasce, negli Stati Uniti, la Rand Corporation,
il tutt’oggi attivo centro di studi strategici e di previsione fondato,
tra gli altri, da Hermann Kahn, che per primo elaborò, con risultati a
tutt’oggi controversi, la tecnica degli scenari e nel quali si elaborano i
primi studi basati su Delphi (che vengono tenuti segreti fino agli inizi degli
anni ’60).
Se negli Stati Uniti la riflessione si rivolge
essenzialmente allo sviluppo di tecniche previsive, mentre nell’allora Unione
Sovietica sono gli elementi legati alla pianificazione (monodirezionale e
deterministica) sul territorio ad avere la prevalenza, in Europa si cerca una
strada diversa. In Francia, la conjecture
di Bertrand de Jouvenel e la prospective
di Gaston Berger, con le loro differenti sfumature di senso, rappresentano un
approccio di tipo filosofico che però non vuol restare nella pura speculazione
teorica; gli studi di previsione europei hanno fin dall’inizio una sorta di
“vocazione all’intervento” nel sociale, che chiama in causa tutte le
discipline, in un approccio transdisciplinare
la cui importanza sarà sottolineata da una grande studiosa italiana, Eleonora
Barbieri Masini. Con i Futuribles
(termine che nasce dalla contrazione dei termini “futures” e “possibles”)
francesi entra in contatto l’imprenditore Pietro Ferraro, che, sulla scia del
gruppo (e della sua omonima rivista) fonda la rivista “Futuribili” in Italia,
nel 1969. La pubblicazione, un vero e proprio tesoro intellettuale
misconosciuto nel nostro Paese, dopo un’interruzione ventennale alla morte di
Ferraro riapre le pubblicazioni nel 1994, grazie all’iniziativa di Alberto
Gasparini, che a Trieste dirige l’ISIG, uno dei pochi centri italiani dedicati
agli studi strategici e di previsione.
Parlare di Futures
Studies “italiani” forse è improprio: questi studi si caratterizzano fin
dall’inizio per una prospettiva di ordine mondiale, per una dimensione
internazionale degli studiosi. Emblematica, in tal senso, la figura di Aurelio
Peccei, manager Fiat padre di una miriade di iniziative a livello nazionale ed
internazionale – tra di esse Adela,
Italconsult, Alitalia, IIASA – la cui creatura forse più nota e controversa è
il Club di Roma, che viene fondato da Peccei insieme ad Alexander King nel 1968
ed è una vera e propria rete internazionale di studiosi e personaggi di spicco
in varie discipline. Il Club nasce allo scopo di mettere in evidenza quelli che
Peccei ritiene essere i rischi potenziali per il pianeta. I problemi vengono
analizzati in ottica sistemica, almeno per quanto riguarda i primi lavori
prodotti: in primis, si pone
l’accento sulla sovrappopolazione ed il conseguente sfruttamento delle risorse.
Il primo rapporto del Club di Roma, The
Limits to Growth (Meadows, Meadows, Randers Behrens, 1972), elaborato dal
gruppo di Jay Forrester al MIT, provoca un vero e proprio terremoto nella
comunità scientifica, nonché un dibattito che Giorgio Nebbia è tra i primi a
portare (dopo Mortara) nel contesto
accademico, parlando, ad esempio, del problema dell’esaurimento dell’acqua
potabile. Un dibattito che a tutt’oggi si può definire ininterrotto: basti
considerare il fatto che il numero 500 dell’edizione italiana de “Le scienze”
esce con il titolo Terra 3.0. Soluzioni
per un futuro sostenibile (2010).
Un’altra figura che non va dimenticata nel contesto italiano
è quella del matematico Bruno de Finetti, che negli anni ’70 delle tesi di
Peccei diviene un acceso sostenitore, dedicando al rapporto tra scienza ed
impegno alcuni importanti convegni CIME (Centro Internazionale Matematico
Estivo); tuttavia, anche nel contributo del de Finetti matematico puro, dei
concetti da lui elaborati fin dagli anni ’30 del secolo scorso è possibile, a
mio avviso, riscontrare elementi che riportano a temi legati ai Futures Studies. Perché non considerare,
infatti, il consenso della comunità su una soluzione comune - basilare nel
lavoro di chi progetta futuri - come una forma collettiva di scambiabilità? Perché non considerare il
risultato finale di un Delphi se non come una forma particolare di scambiabilità? Forse, in questo senso,
la figura di de Finetti ed il suo contributo meritano un ulteriore
approfondimento.
La figura chiave degli studi di previsione in Italia è
tuttavia Eleonora Barbieri Masini, a tutt’oggi attiva in molte organizzazioni
internazionali e Professor Emeritus presso la Pontificia Università
Gregoriana (non casualmente,
un’Accademia extraterritoriale). È lei a strutturare e tenere in piedi la World
Future Studies Federation; è lei a far crescere l’Irades (Istituto di Ricerche
Applicate, Documentazione E Studi), attivando al suo interno il Centro di studi
di previsione da lei voluto e diretto; come pure è lei ad organizzare la Terza Conferenza Mondiale degli Studi sul
Futuro, prestigiosa iniziativa organizzata a Roma nel 1973 con il
patrocinio dell’Ente di ricerca. Sarà proprio dopo questa conferenza, che vede
nei difficili anni ’70 la partecipazione di studiosi provenienti da tutto il
mondo, Paesi dell’Est compresi, che l’Irades sarà sempre più osteggiato, fino
alla definitiva chiusura, a tutt’oggi avvenuta in circostanze non chiare (così
come la sparizione dei testi della sua ricchissima biblioteca). Dopo questo
trauma, la Barbieri Masini riprende man mano i suoi contatti internazionali e –
grazie al supporto di istituzioni quali la Pontificia Università Gregoriana, o
l’Università delle Nazioni Unite, può continuare a dare il suo contributo di
scienziata sociale, coordinando progetti di ricerca (ma forse è il caso di
parlarne in termini di ricerca-intervento) di peso come, ad esempio Household, Gender, and Age, che la
impegna in molte parti del mondo per circa 10 anni (dal 1981 al ‘91).
Ad Eleonora Barbieri Masini va pure riconosciuto il merito
di aver dato una veste teorica compiuta alla disciplina, coordinando le molte
interpretazioni che se ne davano al suo interno.
Chiudendo questa breve digressione sui Futures Studies e la loro importanza nel contesto scientifico, mi
sembra giusto sottolineare come una disciplina che non ha la pretesa di
definirsi scienza, nel suo essere al tempo stesso rigorosa ed attenta ai
bisogni emergenti nelle molte culture del mondo, non può che porsi come
elemento di necessaria riflessione per tutto il contesto scientifico – e per le
scienze sociali in particolare. Mi piacerebbe inoltre che fossero più
conosciuti – e non in termini di contributo storico, ma in quanto viva realtà
di ricerca – soprattutto in un Paese come il nostro, che invece, per obbedire a
non sempre trasparenti regole politiche, non ha spesso ascoltato nel modo giusto
i suggerimenti dei suoi studiosi. Resta famosa la risata di un Ministro, che
aveva chiesto ad Eleonora Barbieri Masini quale sarebbe stato il problema
principale che l’Italia si sarebbe trovata ad affrontare di lì ai prossimi
venti anni; “L’invecchiamento della popolazione e l’età pensionabile” era stata
la sua risposta. Forse qualcosa poteva essere fatto – in modo meno traumatico
di quanto avvenga oggi – molti anni fa.
Riferimenti
bibliografici
Barbieri
Masini E., Why Futures Studies? London, Grey Seal, 1993
Barbieri
Masini E., Stratigos S. (a cura di), Women,
Households, and Change, Tokyo, New York, Paris, United Nations University
Press, 1991; tr. it., Donne e famiglia
nei processi di sviluppo, Torino, ISEDI, 1994
Barbieri Masini E., Nebbia
G. (a cura di), I limiti dello
sviluppo 1972- 2022. Che cosa resta dopo 25 anni, che cosa resterà fra 25 anni,
“Futuribili” n. 3, Milano, Franco Angeli, 1998
Bell W., Mau J.
A., The Sociology of the Future, New
York, Russell Sage Foundation, 1973
Berger G., Étapes de la prospective, Parigi,
Presses Universitaires de France, 1967 ; sito http://www.laprospective.fr/
Bury J. B.,
The Idea of Progress – An Inquiry on its
Origin and Growth, Macmillan Company, 1932; tr. it. Storia dell’idea di progresso, Milano,
Feltrinelli, 1964
de Finetti B., Probabilismo.
Saggio critico sulla teoria delle probabilità e il valore della scienza,
Napoli, Perrella, 1931; in De Finetti (a cura di M. Mondadori), La logica dell’incerto, Milano, Il
Saggiatore, 1989
De Jouvenel B., L’art de la conjecture, Futuribles, Monaco, Éditions du Rocher,
1964 ; tr. it., L’arte della
congettura, Firenze, Vallecchi, 1967
De Jouvenel B., Riflessioni
sulle esperienze dei “Futuribles” francesi, in “Futuribili” n. 1, Roma,
Tumminelli Editore, novembre 1967
Gombrich R., La
predizione nel Buddismo: quanto è aperto il futuro? in (a cura di) Howe L.
e Wain A., 1993; tr. it. pagg.
151-150, Bari, Edizioni Dedalo, 1994
Koselleck R., Begriffgeschichten,
Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 2006; tr. it., Il vocabolario della modernità, Bologna, Il Mulino, 2009
Rizza S., Il presente del futuro. Sociologia e
previsione sociale, Milano, Franco Angeli, 2003
Živković Z., 2002; tr. it., Sei
biblioteche – storie impossibili, Milano, TEA, 2011
[1]
Sociologa, ha recentemente conseguito il Dottorato di Ricerca con una tesi
intitolata “L’esperienza e il contributo italiano ai Futures Studies”. Il breve articolo
qui presentato vuol essere una ulteriore riflessione a partire proprio da questo lavoro.
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